Tre anni di legge sul biotestamento
Questa domenica vorrei parlare di argomenti che a qualcuno appariranno scomodi: fine vita, biotestamento ed eutanasia. Lo faccio perché manca ancora una legislazione specifica al riguardo anche se le premesse ci sono tutte. Un primo passo è stato fatto tre anni con l’approvazione della legge sul consenso informato (la 219/17, entrata in vigore il 31 gennaio 2018), che prevede le DAT (Disposizioni anticipate di trattamento), ossia il proprio testamento biologico, grazie al quale ciascuno può stabilire i criteri da adottare se si trovasse nelle condizioni di non poter più comunicare le proprie volontà. Si tratta di una possibilità di cui, in realtà, si sa molto poco. Inoltre, nonostante le sentenze della Consulta e gli inviti a legiferare da parte della Corte Costituzionale, in Parlamento ancora non si mette a punto una norma specifica, nonostante sia depositata una legge di iniziativa popolare, presentata con oltre 150mila firme. A chi vuole mettere fine alla proprie sofferenze non resta che andare in Svizzera. Dopo il caso di Dj Fabo, sono in molti a prendere la strada delle cliniche elvetiche. Uno al giorno, secondo Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni e promotore della campagna Eutanasia Legale.
In mancanza di norme che anche nel nostro Paese regolino il diritto all’eutanasia, per legge al momento possiamo esprimere le nostre scelte in materia di interruzione delle terapie, anche quelle salvavita. Ma, come dicevamo, pochi lo sanno e ancora meno lo fanno. Le procedure, infatti, non sono ancora semplici e l’informazione è carente da molti punti di vista, anche se la legge 219/17 prevede iniziative informative che facciano conoscere la possibilità di redigere un testamento biologico e depositarlo presso il proprio Comune di residenza.
Tuttavia quella legge ha costituito uno spartiacque per un problema che veniva fino ad allora gestito dolorosamente a livello familiare. Prima di arrivare a quel traguardo, ci furono le battaglie condotte dall’Associazione Luca Coscioni e alcuni casi che divisero il Paese. Come quello di Eluana Englaro, paralizzata da 17 anni e mantenuta in vita artificialmente in uno stato di degenerazione cerebrale definitiva. Il padre Beppino si batté affinché fosse consentito di mettere fine a quella interminabile agonia, sospendendo le cure mediche e permettendo alla figlia di poter morire. Una richiesta che, in mancanza di una legge, venne fatta in aule di tribunale che, alla fine, concessero l’interruzione delle cure mediche. Il 9 gennaio 2009 Eluana moriva, dopo che fu interrotto il nutrimento forzato che la teneva viva in stato vegetativo. Questa tenace battaglia ci mise davanti agli occhi l’evidente mancanza di una norma che permettesse a qualcuno di decidere nel caso ciascuno di noi non sia in grado di scegliere.
Prevista la possibilità del DAT, resta un vuoto culturale ed educativo. Oltre a molti muri che però non affrontano la realtà. Essere contrari a norme sul fine vita per questioni religiose o morali, non giustifica la mancanza di una legge al riguardo, si tratta di un atto di civiltà. La storia e la filosofia ci hanno insegnato che i problemi non si risolvono mettendoli da parte. I problemi vanno affrontati. E va affrontata persino la diffidenza che ci spinge ad accantonarli. L’eutanasia è un nodo irrisolto della nostra legislazione e il fine vita, nonostante la legge 219/17, rimane ancora un problema, soprattutto culturale.
Non dobbiamo decidere per la vita di altri, dobbiamo permettere che tutti decidano del proprio fine vita – e che sappiano di poterlo fare – se per caso si trovassero nelle condizioni di non poterlo comunicare.