Antimafia: aiuti alle imprese che “agevolano occasionalmente” la mafia
Nel titolo sul sito del Ministero degli Interni viene indicato come “Rafforzamento del sistema di prevenzione”, in realtà le modifiche al Codice antimafia non sembrano andare proprio nella direzione del rafforzamento.
Il Consiglio dei Ministri, infatti, ha da poco approvato il Decreto legge recante disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, in sostanza il decreto legge per snellire la burocrazia e riuscire a spendere i soldi del Recovery Fund.
Cosa prevedono le modifiche del Codice antimafia? Leggiamo dal sito del Viminale che viene riconosciuta “al prefetto la possibilità di ricorrere, allorquando i tentativi di infiltrazione mafiosa siano riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale, a misure amministrative di prevenzione collaborativa, in alternativa all’emanazione di un’interdittiva antimafia”.
Agevolazione occasionale? Cosa si intende? Una società che ogni tanto aiuta la mafia e ogni tanto no? Ma che affidabilità può avere? Oppure una società che è incappata per sbaglio in situazioni con personaggi legati alla mafia? Può succedere, è vero, ma in quel caso – constatato l’errore – dovrebbe denunciare. Oppure un’impresa che non si è accorta di lavorare con la mafia? Tutti abili imprenditori quando c’è da guadagnare e tutti allocchi quando c’è da rispondere delle proprie azioni davanti alla legge, è una costante dell’interazione con la mafia. Ma se vogliamo davvero combattere questo fenomeno sarebbe il caso di smettere di credere che cooperative, grandi imprese nazionali e società di successo siano guidate tutte da allocchi.
Per altro invece che sburocratizzare, si rischia di andare nel senso opposto. Ora il prefetto dovrà verificare non solo il rischio di infiltrazione mafiosa, ma anche l’occasionalità, facendo un’impegnativa istruttoria a ritroso che comporta un allungamento dei tempi di valutazione. Ma all’impresa poco importa, anzi, l’impresa mafiosa ne è ben felice perché se entro 45 giorni non arriva la risposta della prefettura, i finanziamenti pubblici vengono erogati ugualmente o l’appalto assegnato sebbene con una clausola di recesso.
Si parla anche di “prevenzione collaborativa”, ovvero “il prefetto potrà prescrivere all’impresa l’osservanza, per un periodo non inferiore a 6 e non superiore a 12 mesi, di una serie di stringenti misure di controllo “attivo” che consentiranno alla medesima impresa di continuare a operare sotto la stretta vigilanza dell’Autorità statale. A tali fini, viene anche riconosciuta al prefetto la possibilità di nominare esperti (di numero non superiore a tre) individuati nell’albo nazionale degli amministratori giudiziari”.
In pratica lo Stato sorveglia l’impresa evitando che compia scelte che possano favorire la mafia. E chi paga tutto questo, esperti compresi?
Cioè: un’impresa ‘saltuariamente’ vicina alla mafia partecipa a un bando di gara per costruire infrastrutture previste dal Pnrr. Avendo un amico (che vede occasionalmente) con grande disponibilità di soldi da riciclare, può fare un prezzo inferiore alle altre società e vincere l’appalto. A quel punto qualcuno nota le amicizie sporadiche e le segnala al prefetto che decide di attivare una “prevenzione collaborativa” mettendo un paio di esperti alle calcagna dell’azienda. Il costo totale dell’operazione per lo Stato a questo punto lievita: non era meglio escludere quell’azienda con l’interdittiva antimafia tradizionale e farne lavorare un’altra priva di “agevolazioni occasionali”?
Questa battaglia si è fatta per tutelare i posti di lavoro, ma i posti di lavoro delle società che lavorano onestamente e che devono sopportare una concorrenza sleale da quelle un po’ mafiose non ci pensa nessuno?
Qualcuno dirà che sono modifiche che ci chiede l’Europa. Diciamo che all’Europa si imputano troppe cose. Perché è vero che chiede all’Italia diverse modifiche per quanto riguarda la riforma della pubblica amministrazione, quella della giustizia (in particolare quella civile) e il contrasto all’evasione fiscale; ma ricordiamoci che ci ha già messi in guardia sui sistemi utilizzati per la sburocratizzazione. Un esempio? Il decreto semplificazioni dello scorso anno. L’obiettivo era quello di sburocratizzare la pubblica amministrazione e di rendere più veloce l’assegnazione degli appalti. Peccato che la relazione della Commissione sullo stato di diritto in Italia dica espressamente che: “il decreto-legge per la semplificazione e l’innovazione digitale adottato nel luglio 2020 ha introdotto un regime speciale per l’aggiudicazione dei contratti pubblici. Le misure si concentrano su procedure rapide e aggiudicazione diretta senza gare ufficiali (…) tutti elementi questi che rischiano di facilitare la corruzione”. L’assegnazione diretta infatti è passata da una soglia massima di 40mila a 150mila euro (75mila per servizi e forniture). Sburocratizzazione sì, ma favorire la corruzione anche no!